Paola Cortellesi debutta come regista col film “C’è ancora domani”, per cui contribuisce anche alla stesura della sceneggiatura, insieme a Furio Andreotti e Giulia Calenda.
Nella Roma del dopoguerra, Delia incarna il ruolo di madre e moglie imposto dalla società patriarcale: si occupa delle faccende domestiche, si dedica ai tre figli, all’anziano suocero allettato e svolge diversi lavoretti in giro per la città. Subisce quotidianamente l’infedeltà e la violenza fisica del marito. La violenza non viene mai esibita nella sua crudeltà, ma viene sempre evocata e sublimata. Non è visibile ai vicini di casa, ma è intuita da pochi gesti: la chiusura, da parte dell’uomo, della porta e della piccola finestrella che dà sul cortile. Non è esibita neppure agli spettatori, ma dissimulata: ogni qualvolta Delia pecca di una minima “mancanza”, Ivano “danza” con lei.
Un film a sfondo storico, sicuramente, ma non crudamente neorealista (seppur il bianco e nero e il formato di alcune scene iniziali del film cerchino un contatto con i grandi registi neorealisti). Al contrario, la drammaticità viene sdrammatizzata attraverso l’ironia e il riso amaro.
L’agnizione finale ci svela l’“inganno”, reso possibile da una studiatissima sceneggiatura: l’emancipazione e l’atto di ribellione di Delia non si identificano con la fuga d’amore (che, seppur “d’amore”, significherebbe sudditanza verso un altro uomo), ma con l’esercizio del diritto al voto. L’emancipazione, coinciderebbe allora con un atto individuale e strettamente personale, declinato in chiave politica.
Delia viene definita dal suocero come una buona donna, ma che ha un grosso difetto: “parla troppo”. Sempre il suocero dirà al figlio: “Non puoi picchiarla tutti i giorni, se no quella si abitua. Devi farlo di tanto in tanto, ma forte, così impara a tenere la bocca chiusa”. Il patriarcato viene rappresentato come potere e sopraffazione a tutti gli effetti, che si trasmette di padre in figlio. Ottorino (il suocero), Ivano (il marito) e Giulio (il fidanzato della figlia Marcella) rappresentano tre uomini di tre generazioni diverse, ma caratterizzate tutte dallo stesso sistema di potere patriarcale. Non c’è spiraglio di evoluzione e cambiamento: la morte di Ottorino non sancirà la morte di quel sistema ma, al contrario, è destinato a reiterarsi di generazione in generazione.
La parola diventa allora simbolo di potere e libertà individuale. Proprio per questo è la parola, il diritto d’espressione, che gli uomini che la circondano cercano di sottrarle. Allora, davvero, per Delia, il primo passo per acquisire libertà e “potere” sarà quello di poter esprimere la propria opinione, far sentire la propria voce attraverso il diritto al voto. Come cita Michela Murgia nel libro “Stai zitta”: di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la più sovversiva.
A poco più di settantasette anni di distanza dalla vicenda portata sullo schermo dalla Cortellesi, possiamo dire che la società attuale abbia effettivamente raggiunto la meta di quel cammino verso l’emancipazione iniziato grazie al riconoscimento del diritto al voto? Dal vocabolario Treccani: Emancipazione della donna, parificazione della donna all’uomo nei diritti civili e politici (ma anche, più generalm., liberazione da quei pregiudizi e quelle convenzioni che limitano la sua libertà e la sua autonomia).
Una donna, ad oggi, è davvero libera dai pregiudizi e convenzioni che limitano la sua libertà e autonomia?
La parità è stata raggiunta anche sul piano umano?
Forse, a tanti anni di distanza dai primi traguardi di emancipazione, per la società attuale non è più tempo di dire “c’è ancora domani”.

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