di Andrea Mastrullo
Si appresta ad arrivare quel periodo in cui i buoni propositi dell’anno in fatto di diete fanno “ciao” per far posto a lunghi ed interminabili (quanto corposi) pasti; per alcuni, poi, i pranzi e le cene vengono accompagnati dalle classiche domande “quando ti sposi?”, “quando ce lo fai un nipotino?”, “come va il lavoro?” Insomma: un tripudio di convenevoli.
Dicembre, però, è anche quel periodo in cui “i più” vogliono tornare bambini: a quando l’unico pensiero era scartare i regali portati giù per un camino da un grosso uomo con la barba folta, vestito di rosso, con gli occhiali, voglioso di latte e biscotti.
Il Natale, insomma, crea una sorta di spaccatura: chi lo ama a tal punto da postare il “countdown” sui social il 15 di agosto e addobbare casa ad ottobre (pompati dalla scienza che dice che chi lo fa prima è felice), e chi lo odia con altrettanto fervore da rispondere a quei post con frasi tipo “svegliatemi direttamente il 7 gennaio”, o la più blasonata “che ansia”. Ansia di che cosa? Verrebbe da chiedersi.
Alcune motivazioni (quelle più di carattere logistico se così vogliamo definirle) che spingono a scegliere una fazione o l’altra, fondamentalmente, sono le stesse: cambia solo il modo in cui vengono percepite. Per esempio: i giri per negozi con relativo caos e traffico stradale, le enormi spese al supermercato per pranzi e cene, gli onerosi viaggi per chi torna a casa o per chi sceglie di passar le feste altrove. C’è a chi piace e a chi mette i brividi.
Oltre ai sopracitati (più futili in un certo senso), il 70% della popolazione europea, che ha partecipato ad un sondaggio effettuato da Eurodap (Associazione Europea disturbi da Attacchi di Panico), ha riferito anche problemi economici, terrorismo e conflitti in atto come possibili fonti di stress.
Entrano in gioco in questa disputa anche quelli di carattere più personale ed introspettivo: lutti, traumi passati, situazioni di ogni genere e forma spiacevoli. Tutte legittime e comprensibili se pensiamo a quello che il Natale porta con sé.
Da questo sondaggio si evince anche che 1 Italiano su 2 vivrebbe il Natale con ansia; chi sa se questo 1 tiene conto solo delle persone che effettivamente hanno una ragione per soffrirne (vedi quanto appena scritto) o vengono inseriti anche coloro che abusano del termine per andare controtendenza rispetto al periodo? Senza dimenticare quelle che sposano la causa del “Grinch” confondendo la sua profonda repulsione per le persone con una ben più superficiale avversione per il Natale.
Gioia, allegria, spensieratezza, pacchetti con nastri e fiocco, cene con amici e parenti, addobbi vari ed eventuali, luminarie: tutto urla “felicità!”. Non è certo facile per chi non ha qualcuno con cui sedersi a tavola, a cui fare un regalo (anche volendo e potendolo fare), chi lotta dal mattino alla sera per sopravvivere perché si trova in zona di guerra, chi è in ospedale sperando di riuscire a vivere questo Natale e anche i prossimi e chi ha appena perso l’unica persona con cui avrebbe voluto passarlo. Per queste persone è oltremodo normale sentire il peso morale imposto dal mondo circostante che ti vuole felice e ti giudica se non riesci ad esserlo, o se non vuoi esserlo. Perché si, prendendo in prestito un modo di dire conosciuto da tutti: “non lo ha mica prescritto il medico”.
Ovviamente, come per la controparte “felice”, anche in questo caso la scienza viene in aiuto. Secondo alcuni studi pubblicati dal British Medical Journal sembra ci sia anche un aspetto psicologico comportamentale legato ad alcune aree del cervello in cui dovrebbe essere “localizzato” lo spirito del Natale. Grazie cara scienza che fornisci sempre nuove scuse “pronte all’uso” ai cinici.
In ogni caso: che lo spirito natalizio alberghi o no nella testa poco importa, perché la vera domanda che mette più ansia di ogni jingle bells, di ogni convivio, di ogni regalo, creando un accordo di pace in trincea, è solo una:
“COSA FAI A CAPODANNO?”
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