A fine anni ‘50 molte bambine si ritrovano nelle mani per la prima volta un giocattolo nuovo: non più neonati da accudire, ma giovani donne in costume da bagno (con tanto di tacco) in cui immedesimarsi e, perché no, attraverso cui sognare la propria vita da grandi.
Probabilmente secondo Ruth ed Elliot Handler, i fondatori della Mattel, l’emancipazione di quelle bambine sarebbe andata di pari passo con quella delle numerose barbie che la casa produttrice stava progressivamente creando: non più soltanto madri, ma anche insegnanti, dottoresse, presidente (o presidentessa?)…
Più di sessant’anni dopo, il film “Barbie” cerca invece di svincolare proprio quello stesso giocattolo dalla sua rappresentanza di un modello inarrivabile di bellezza femminile e dal suo ruolo produttore di un senso di inadeguatezza e inarrivabilità in quelle bambine, man mano diventate adulte.
Ma questo film forse fa molto di più: recupera il senso originario, storico, di “femminismo”.
Il focus non è soltanto sulla donna, ma è ambivalente, cerca di equilibrare e considerare i due punti di vista uomo-donna. Non è soltanto la storia dei tentativi verso la libertà e la sensibilizzazione nei confronti del genere femminile, ma anche maschile: con grande ironia ed apparente leggerezza rappresenta le fragilità e le problematiche legate ad entrambi i generi.
Un film che rintraccia la libertà e l’uguaglianza a metà strada tra i due mondi che porta in scena: Barbieland, un mondo in cui il genere maschile dei numerosi Ken non ha alcuna funzione, capacità o aspirazione se non quella di “spiaggiarsi” e di ricevere una qualche attenzione da Barbie (senza ottenere risultati perché “ogni sera è la sera delle ragazze”) e il mondo reale, dominato dal patriarcato, dove Barbie-donna si trova vittima di catcalling indesiderato, di sessualizzazione e discriminazione per le vie della città.
Un film che mette in luce le problematiche di entrambi i tipi di società che i due mondi rappresentano, sottolineando le fragilità e le difficoltà che, nel sistema patriarcale, gli uomini-leader nascondono dietro il loro ruolo imposto dalla società, così come la frustrazione e l’impotenza provata dalle donne.
Un film che insegna che non ci sono vittime e carnefici, ma che qualsiasi sistema sociale radicale, sia esso patriarcato o “femminismo” unilaterale, ci rende tutti vittime di questo stesso sistema imposto, facendocelo accettare passivamente e rendendoci schiavi di ruoli prestabiliti.
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