Tratto dal dall’omonimo best seller di David Grann (edito in italiano col titolo Gli assassini della terra rossa), l’ultimo film di Martin Scorsese, Killers of the Flower Moon, è ambientato nei primi anni del XX secolo, il periodo in cui la scoperta del petrolio trasformò la tribù dei nativi americani degli Osage nella popolazione più benestante d’America, con reddito pro capite più alto del mondo.
Una epopea raccontata in tre ore e ventisei minuti che documenta una pagina tra le più violente della storia degli Stati Uniti.
Scorsese ricorda attraverso il film i crimini fondativi della nazione americana. Non brutali e spartane battaglie a cielo aperto, ma un vero e proprio stillicidio subdolamente architettato. Una catena di imboscate, avvelenamenti, agguati e uccisioni, che prese il via ai danni del popolo Osage appena la notizia della scoperta dei giacimenti di petrolio divenne di dominio pubblico.
“abbiamo così tanti morti che abbiamo perso il conto”.
Il numero di persone uccise divenne talmente alto da portare all’intervento dell’FBI, con lo scopo di indagare su quella continua serie di morti, misteriose e dubbie.
Uno dei sospettati è Ernest Burkhart (interpretato da Leonardo di Caprio), reduce dalla Prima guerra mondiale e sposato con Mollie, nativa americana. L’altro è lo zio di Ernest, William Hale (interpretato da Robert de Niro). Emblematica è la frase di quest’ultimo: chiamami pure Re, a voler sottolineare la propria volontà egemonica tipica del latifondista bianco.
Un vero e proprio affresco sulla violenza dei bianchi contro i nativi americani, sulla quale si costruirà l’imperialismo e il capitalismo americano.
Il film non riconducibile a un solo genere, potrebbe piuttosto definirsi una commistione di generi mescolati insieme: western, ganster movie, poliziesco, melodramma, ma anche film storico-civile. E non si ferma qui. Si percepisce una punta di ironia lungo l’intera durata, soprattutto negli studiatissimi dialoghi tra Ernest e William.
Gli americani, assetati di denaro e potere, vengono rappresentati in tutta la loro miserabilità e ridicolaggine, di contro agli Osage, la cui vita quotidiana è caratterizzata da solennità meditativa e riti strettamente legati al contatto con la natura.
Quando Scorsese si recò nel 2019 nella Nazione Osage a Pawhuska per discutere come la nazione autoctona potesse essere coinvolta nella produzione del film, disse: Loro non potrebbero in alcun modo adattarsi al modello europeo e capitalista, in termini di denaro e proprietà privata. Il fatto stesso che non capiscano, in termini europei, il valore del denaro significa che non possono esistere in questo mondo.
Soltanto apparentemente William Hale azzera la distanza culturale tra nativi ed europei. Degli Osage conosce la lingua, i modi, gli usi e i costumi. Ma non usa questa conoscenza come strumento di unione e reciproco arricchimento interiore, bensì la sfrutta per capire meglio come insinuarsi nella vita e nelle famiglie della tribù e colmare la propria sete di denaro e potere, facendo dell’appropriazione culturale uno strumento utile alla manipolazione dell’intera tribù.
Nelle scene finali lo spettatore scopre di essere dentro ad uno spettacolo. Attori su un palcoscenico riassumono le storie dei personaggi raccontate nel film, quasi a voler sottolineare l’assurdità della violenza umana.
Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura.
Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia.
Si legge ne L’arte della guerra di Sun Tzu, forse il più antico manuale strategico della storia (VI sec A.C.)
Ma la focalizzazione sul tentativo di conoscenza del nemico forse ha portato alla perdita della conoscenza di se stessi e alla cecità verso i valori umani.
Perché nessuna “vittoria” può definirsi tale se per arrivarvi è stato necessario annientare e cancellare intere civiltà.
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