di Martina Vincis
Leggere il contemporaneo, pensare a nuove narrazioni sulla maternità, rifiutare la retorica con cui viene affrontata nel dibattito pubblico e politico, spezzare le catene di un ruolo opprimente: sono sfide urgenti per le donne, soprattutto in quest'epoca complessa caratterizzata da una crisi demografica che, anno dopo anno, segna nuovi record negativi.
L'8 maggio è stato pubblicato l'annuale report di Save the Children “Equilibriste-maternità in Italia nel 2024”.Un'analisi dettagliata che evidenzia come, nel 2023, sia stato registrato un ulteriore minimo storico delle nascite, ferme sotto la soglia delle 400.000 e in calo del 3,6% rispetto al dato rilevato l'anno precedente.
Numeri importanti che il rapporto inserisce nella cornice, ben più ampia, di svantaggio socio-economico in cui permangono milioni di donne. Per esempio, lo scorso anno, il tasso di occupazione femminile, nella fascia 15-64 anni, si è attestato al 52,5% contro il 65,8% della media dell'Unione Europea. A questo si accompagna il dato relativo al gender gap (differenza tra tasso di occupazione maschile e femminile), che in Italia continua a essere ben superiore alla media europea. Ne consegue un'esclusione delle donne dal mercato del lavoro con ripercussioni proprio sulla stessa fecondità, in quanto conciliare la vita lavorativa con quella famigliare comporta sforzi e rinunce a una o all'altra cosa, in un contesto in cui il lavoro di cura è ancora rilegato quasi esclusivamente al genere femminile. Uno dei punti cardine di comprensione del problema natalità sta quindi proprio qui: i dati degli altri paesi occidentali dimostrano infatti come un'alta partecipazione femminile al mondo del lavoro, accompagnata da politiche di welfare e di sostegno al reddito, porti anche a un aumento delle nascite.
Questione natalità: dai numeri alla realtà
Andando oltre il dato numerico, è chiaro che il problema delle nascite è prima di tutto una questione politica che coinvolge non solo le istituzioni, ma anche e soprattutto la società civile.Questo significa, prima di tutto, sorvegliare sulle risposte della classe dirigente alla crisi affinché non vengano messi in discussione i diritti riproduttivi che le donne hanno conquistato con le lotte femministe degli anni ‘70 e che sono stati uno strumento indispensabile di emancipazione.
La recente approvazione, alla Camera e Senato, dell'emendamento che consente ai gruppi antiabortisti di accedere ai consultori, per esempio, è un campanello d'allarme che, in questo senso, non può essere ignorato.
Nel documentario del 1977 “Madre. Ma come?”, la regista Rosalia Polizzi propone uno spaccato dell'Italia dell'epoca vista dagli occhi di madri e lavoratrici costrette a scegliere tra lavoro salariato e lavoro di cura non retribuito oppure a sottostare ad una maternità obbligata. Le loro prospettive di vita cambiano con il riconoscimento del diritto alla contraccezione e all'aborto libero e sicuro.
Il cortometraggio è interamente dispiegato nella dimensione collettiva femminile nella quale si muovono donne che parlano con altre donne dei medesimi problemi poiché medesima è la condizione, e lo fanno nei luoghi di lotta per eccellenza: i consultori famigliari di nuova istituzione, le fabbriche, le università, le piazze.
Oggi gli anni '70 sono passati da un pezzo, ma, come si chiede l'accademica femminista Francesca Izzo, l'intera questione della maternità non dovrebbe ancora essere analizzata nello spazio collettivo, ovvero nella sfera politica e sociale delle donne? Ne potrebbero scaturire riflessioni lungimiranti sull'esperienza femminile che legano a doppio filo l'essere madre con l'essere figlia e che potrebbero arricchire la discussione sul problema natalità con nuove chiavi di lettura e proposte di risoluzione.
Dalla madre alla figlia
Pensare al rapporto madre-figlia contribuisce a sciogliere il nodo sul ruolo della genitorialità femminile e su cosa questo comporti in una modernità dilaniata dalle contraddizioni tardo-capitalistiche. Nel saggio “Nel nome della madre. Nuove forme di maternità”, raccolta di scritti a cura di Daniela Borgi, Tiziana de Rogatis e Cristina Franco, viene messo in evidenza come la relazione madre-figlia è fondativa dell'identità femminile.
Non solo, Tiziana de Rogatis fa un ulteriore passo e afferma che questo dualismo identitario non interessa solo le donne, ma l'intero genere umano. Perchè, nel processo procreativo, è l'umanità tutta a venire al mondo.Secondo questa prospettiva, esiste un legame indissolubile tra l'essenza della madre e quella della figlia: due mondi sovrapponibili in quel gioco di specchi e di interdipendenza in cui l'esistenza di una figlia determina innegabilmente l'esistenza di una madre, e viceversa. La nascita della figlia, per dirla in termini junghiani, comporta la nascita della madre e quindi “ogni madre contiene in sè la propria figlia e ogni figlia la propria madre, ma ogni donna si amplia in una direzione nella madre, nell’altra nella figlia”.Con questo non si vuole affermare che la maternità, come concetto, è un fatto naturale e che tutte le donne debbano essere madri in nome di un costrutto sociale ingannevolmente definito istinto. Anzi, come dice l'autrice Giovanna Fiume in “Madri. Storia di un ruolo sociale”, la figura materna, nel corso dei secoli, è sempre stata mutevole poichè assoggettata alle dinamiche socio-demografiche, alle politiche statali e alle influenze di Chiesa e mercato del lavoro. La conclusione che trae è che quello materno è un ruolo sociale, quindi determinato dalla convergenza di fattori che sono culturalmente stabiliti.
Parlare del legame tra identità e maternità significa dunque affermare l'esistenza di una trasmissione dell'esperienza femminile che trova, nel rapporto genitrice-figlia, la sua viscerale sublimazione; vuol dire riconoscere la lotta delle madri e trarne la linfa vitale per continuare a combattere: per loro, per la loro memoria, per le figlie di oggi e per quelle che verranno.
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