Una quotidianità fatta di confusione, di disorientamento, di incertezza assoluta. Una vita fatta di presente, in cui il futuro non riesce a farsi largo. Mai. E la stanchezza diventa l’unica sensazione che prevale e accompagna. Questa la condizione di chi vive per anni nel precariato. Si fa largo con il tempo, nella mente e nell’animo, insieme a una sensazione di estenuante ricerca, la convinzione, che diventa, in seguito, quasi certezza dell’ineluttabilità della propria situazione, dell’impossibilità di modificarla per quanti sforzi e quanto impegno si possano profondere.
Matura anche un certo sfinimento, perché si crea una condizione altalenante, sempre di scarsa definizione e massima disponibilità che bisogna garantire con uno zero di ritorno.
L’intervallo tra il tempo in cui si conclude un lavoro, la corsa affannosa a cercarne un altro, che cos’è? E’ un tempo libero da gestire? Un tempo non scelto e che obbliga? Anche un solo mese di "pausa" è un mese non vissuto con serenità, un tempo non a disposizione.
La vita del lavoratore precario somiglia molto alla vita da schiavo.
Al lavoratore precario manca il senso di non sentirsi parte di niente, di un progetto, di una relazione.
Ogni anno sono milioni gli “scoraggiati”, che, abbandonata la speranza di trovare lavoro, hanno smesso di cercarlo, e quindi non risultano più né fra i disoccupati, né fra gli occupati. Eppure costoro non stanno di certo con le mani in mano. Se aumentano le etichette con cui identificare queste persone ( perché di persone si tratta) , non si fa nessun tentativo di portare alla discussione pubblica il significato del cambiamento in atto. Da cosa sono 'scoraggiati' i lavoratori di oggi? Non solo dalla perdita del posto fisso, ma dalla frustrazione che deriva dal tipo di mansioni che devono accettare. Infatti, non è mutata soltanto la durata dell'occupazione, ma anche la sua forma: il lavoro che si svolge in forma precaria non permette a chi lo pratica di acquisire una padronanza specifica in un dato settore, di sviluppare delle abilità che richiedono continuità, tempo, anche lentezza.
Anche la percezione sociale si è adeguata agli standard negativi da cui quotidianamente siamo sommersi dai canali di informazione, e il risultato è il prevalere della depressione e dello sconforto, un risentimento che genera isolamento, rabbia e insicurezza. Così nasce l'inattività, non a cercare un'altra occupazione, ma a confidare nel cambiamento della propria situazione, dall'insicurezza verso se stessi e dalla paura di ciò che ci circonda.
Il problema è che il tipo di occupazione imperante non soddisfa i bisogni degli individui, non contribuisce alla realizzazione della loro personalità e, quel che è più grave, impedisce ai soggetti di percepire il lavoro come strumento di coesione sociale e di promozione del benessere materiale e spirituale della società. È attraverso il lavoro che si stabiliscono i rapporti che legano gli individui fra loro, ed è attraverso il lavoro che si può dare forma alla realtà, modificandone i contorni e decidendone la direzione di sviluppo.
Affrontare la crisi attuale significa rovesciare i termini con cui troppo spesso viene presentata. Ma non si tratta di discutere e basta, come in uno dei tanti, squallidi salotti televisivi, che hanno contribuito a deformare, banalizzare e distruggere il senso della conversazione civile. La razionalità del discorso si misura dalla sua capacità di veicolare contenuti oggettivi, che hanno una rispondenza con la realtà perché permettono di leggerla e di interpretarla, e quindi di agire con una coscienza formata.
Pensare con la propria testa, oggi, non può che significare spegnere la televisione, porsi domande sulla realtà socio-economica attuale, cercare delle risposte, non smettere mai di formarsi delle idee, appassionarsi ad un progetto che appaghi la propria personalità e trovare il gusto di condividere con chi è vicino saperi, speranze e progetti.
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