È nella natura di certe tragedie toccare la coscienza della società e risvegliare dimensioni interiori sopite.
L’empatia è nell’essenza umana per questo tutti diventano padri, madri o cari amici delle vittime, perché le loro storie sfiorano ogni individuo e lasciano un segno.
Questo lato della medaglia della natura umana presenta però un inevitabile rovescio, per dirla con Fabrizio De Andrè: “per tutti il dolore degli altri è dolore a metà”.
Possiamo quindi avvicinarci al dolore contenuto in certe notizie di cronaca, ma dovremmo anche avvicinarci all’idea che per noi, quel dolore, non è che una minima frazione diluita di quello reale.
L’Assenza di questa consapevolezza contribuisce ad alimentare il meccanismo patologico per il quale le immagini relative al fatto sono condivise centinaia, migliaia di volte, e allegate ad una tipologia di messaggi che via via presentano un numero di banali e sterili varianti.
C’è chi massacrerebbe il carnefice, chi colpevolizza la vittima, chi dichiara di volerle solo dedicare un pensiero e chi tenta di sdrammatizzare in modi sconfinanti nello squallore, con il risultato che la notizia è disumanizzata e sbranata da luoghi comuni e pensieri mediocri.
Ma è davvero questo il fine della cronaca ed il flusso di coscienza che la narrazione di una tragedia dovrebbe creare?
E’ davvero questa la modalità evoluta di rielaborazione del dolore che l’umanità del XXI secolo ha raggiunto?
Il diritto di cronaca quasi scompare nel circo mediatico che l’evento scatena.
Il meccanismo di condivisione tipico dei social network provoca una rigenerazione perpetua di refusi della notizia originaria, ogni volta ampliati da commenti e pensieri della più variegata natura.
Si perde l’originalità della notizia che assume il valore di badge da applicare al proprio profilo social, quasi a dire: “anche io, come tutti gli altri, ho commentato la notizia del momento e posso passare ad altro”.
Siamo di fronte al declino dell’informazione?
Sparisce il dolore, sparisce il rispetto, sparisce la dignità della vittima, sparisce l’umanità del carnefice e tutto diventa sterile speculazione.
Il circo mediatico scatenato diventa un veleno ancora più forte della tragedia.
Esprimere la propria opinione è diventato un obbligo.
I fatti sembrano trasmettere al singolo individuo il diritto artificiale di dover dire qualcosa, indipendentemente dall’esistenza effettiva di qualcosa da dire. Ed il livello raggiunto è tale da rendere l’atto del tacere quasi un diritto rivoluzionario, una saggia presa di posizione.
Quando tutto il mondo parla a sproposito, alimentando solo il proprio ego distorto, tacere diventa l’atto sovversivo e rivoluzionario per eccellenza, un nuovo diritto da difendere.
La libertà di espressione non si fonda forse sul diritto all’evoluzione ed all’elevazione del pensiero umano contro il caos che l’istinto ancestrale è in grado di generare? Ma è bene ricordare che essa funge da motore di questa evoluzione collettiva solo se alimentata dal buon senso e dall’effettiva utilità di ciò che si esprime, e che il troppo parlare inutilmente l’ha svuotata di senso.
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